Velocità sembra sinonimo di efficienza, di successo e di valore personale. Ogni minuto deve essere produttivo, ogni secondo deve portarmi un passo più avanti. Il rallentare e il pazientare appaiono come atti contrari al buon senso, quasi uno spreco di tempo. Una profonda saggezza, tuttavia, si cela in questi gesti apparentemente inattivi.
Rallento e mi sottraggo alla frenesia, torno all’ascolto degli altri, della realtà e di me stessa. Non fuggo, osservo. Mi fermo per comprendere meglio, per dare tempo alla riflessione di emergere sopra il rumore dell’urgenza. Un’azione consapevole di coraggio, che implica la rinuncia all’immediatezza del risultato e all’illusione del controllo. Vado più adagio, vedo con chiarezza e fiorisce un agire intuitivo.
La pazienza, sorella stretta del rallentare, è una virtù che alleno nei momenti in cui la vita non segue i miei piani. Aspetto senza inquietudine, mi fido del tempo e dei suoi ritmi naturali. Non è passività, ma accoglienza attiva. Dolce maestra, mi insegna a non lasciarmi travolgere dall’ansia di ottenere tutto e subito. I frutti più maturi richiedono cura, dedizione e attesa.
Mi alleno alla pazienza e alla lentezza e rivolgo il mio sguardo alla profondità, alla capacità di trovare valore nei processi, non solo nei risultati. Rallento e paziento, è pienezza dell’attimo presente, è contatto con l’essenza.
Silenzio non clamore, lentezza non corsa, attesa più che pretesa. Rallento ed ho pazienza: una rivoluzione che mi porta ad essere più umana, più consapevole, più serena e soprattutto più libera.
Rallento e paziento verso una saggezza che mi insegna a vivere in armonia con il tempo e con chi davvero sono e in questo sapermi fermare fluisce la Vita.
Grandi cose accadono attraverso me sembra presuntuoso o egocentrico, ma guardando con occhi diversi, diventa una dichiarazione di libertà e di fiducia.
Speranza e potenzialità. Non vanto di ciò che si è, ma il riconoscere di essere strumenti di cambiamento, ponti tra l’ordinario e l’eccezionale.
Mi sento spesso piccola e impotente di fronte alle sfide globali: guerre, disuguaglianze, crisi ambientali. La storia mi insegna però che molte trasformazioni iniziano con singoli individui. Tutti hanno la possibilità di compiere un gesto, di prendere una decisione o di pronunciare parole che possono generare un impatto reale nella vita di qualcun altro. Grandi cose non significa necessariamente imprese eroiche, ma anche invisibili atti di gentilezza e di coraggio: verità che cambiano il corso di una giornata o magari di una vita.
“Grandi cose accadono attraverso me” è la capacità di mettermi al servizio di qualcosa di più grande di me.
Ho qui un ruolo da giocare, parole che possono incoraggiare qualcuno, scelte che possono costruire o distruggere, idee che possono contribuire a creare qualcosa di nuovo. Una responsabilità, certo, ma anche una meravigliosa opportunità: divento un canale attraverso cui il bene, la bellezza o il progresso possono prendere forma.
Non occorre essere perfetti, potenti o famosi: basta essere semplici, presenti e consapevoli e comincia la rivoluzione.
La bicicletta funziona col movimento. Se mi blocco, cado. L’equilibrio non è una condizione statica, ma si mantiene attraverso l’evoluzione ed un costante cambiamento.
Difficoltà, ostacoli e momenti di stanchezza fanno parte del percorso, ma continuo ad andare avanti e trovo la forza di superare tutto. Se mi fermo, pendo da un lato e perdo il centro.
Seguito a pedalare, anche lentamente, anche con fatica, e resto in piedi.
Una trasformazione perpetua: apprendo, mi confronto, cambio idea, affronto nuove esperienze.
Indugio e smetto di crescere. Pedalo, imparo e mi metto in discussione. Accetto di uscire dalla mia zona di comfort e di sviluppare nuove capacità.
Non so dove sto andando, ma proseguo con fiducia: il movimento mi porta una visione chiara, o forse no, ma andare avanti è già una forma di armonia.
La mia meta non è precisa: pedalo, viva e presente, con coraggio e determinazione, in un moto continuo che promette saggezza ed imparzialità.
Tutte le volte vi entro in punta di piedi, con rispetto, con presenza. Gli porto una piccola offerta, un pensiero, un respiro, un sussurro e un saluto, come mi insegna uno sciamano andino. E’ un gesto semplice, il riconoscere che entro in uno spazio sacro, che non mi appartiene, ma che mi accoglie.
La verità, quando si rivela, non chiede di essere creduta. Non si tratta più di speranza, né di fede cieca. È qualcosa di più profondo, quasi fisico. Una conoscenza che si radica nelle ossa, che pulsa sotto la pelle. È come tornare a casa dopo un lungo viaggio e riconoscere, senza alcun dubbio, di essere finalmente arrivati.
Vivo in un mondo che misura il valore delle persone in base a quanto guadagno, quanti titoli ho conquistato, quanti follower mi seguono. Tutto deve avere una direzione precisa, un obiettivo da raggiungere, una vetta da scalare.
Una forza silenziosa e tenace, un sentimento tanto misterioso quanto necessario che mi accompagna lungo il cammino.
E’ davvero l’obiettivo a determinare le mie scelte o, al contrario, sono le mie scelte, il mio modo di essere e di vivere che determinano l’obiettivo? Rovescio il punto di vista tradizionale. Il fine non è il motore primo dell’agire, ma il risultato di un percorso: l’esito naturale e necessario delle condizioni che lo generano.
La mia “bambina interiore”, fragile, sensibile e autentica, conserva memorie emotive, ferite e bisogni insoddisfatti delle prime esperienze di vita, legate all’infanzia.
Adoro avere spazi e nicchie nude, parti incomplete, perché mi riempiono di stimoli, di voglia di occuparli o solamente di osservarli e di immaginare con quanti oggetti diversi e colorati, con quante possibilità posso, oggi o domani, perfezionarli.
Una strana legge, non scritta e non sempre razionale, governa il modo in cui ricevo e comprendo i messaggi della vita: arrivano quando sono pronta. Frasi ascoltate distrattamente anni prima, libri abbandonati a metà, consigli ignorati, improvvisamente riemergono con un senso nuovo e nel momento in cui ho gli strumenti interiori per coglierli. Il messaggio era rimasto lì, in attesa, finché qualcosa in me non si fosse allineato per comprenderlo davvero.
“Respiro” e dico chi sono. Semplice, quasi invisibile e profondamente legato alla vita. Soglia tra corpo e mondo, tra ciò che è dentro e ciò che mi circonda fuori. Prima cosa che faccio quando nasco ed ultima quando muoio.
Respiro è consapevolezza: se mi sento sopraffatta, quando il mondo diventa troppo veloce o troppo rumoroso, cerco il mio respiro. In questo gesto antico ritrovo me stessa. Inspiro profondamente, trattengo e lascio andare. È un ritmo che conosce ogni emozione: accelera quando corro o ho paura, si fa lento quando sono in pace, si blocca quando qualcosa mi sconvolge. E ogni volta che ne prendo coscienza, ritorno presente, ritorno intera.
Respiro mi collega al mondo. Nelle relazioni autentiche, quelle in cui mi sento vista davvero, respiro insieme. Una sintonia invisibile di pause, sguardi, silenzi condivisi. Il respiro dell’altro mi insegna ad ascoltare, a rallentare, a essere meno egocentrica e nel tranquillo respiro di chi mi è vicino trovo rifugio.
Un ampio respiro e sento la natura. Il vento tra gli alberi, le onde del mare, il canto degli uccelli all’alba: tutto respira insieme. E’ l’Universo stesso che ha un ritmo, un’espansione e una contrazione, un battito simile al mio, che diventa preghiera, stupore, appartenenza.
“Ho bisogno di aria”, “mi manca il respiro”: sono oppressa e il respiro è spazio, è possibilità. È libertà di fermarmi, di scegliere, di cambiare direzione. È ciò che mi restituisce la vita nei momenti più bui.
Respirare è un modo di vivere. Attenzione, presenza, contatto. Apro le porte della mia interiorità e mi guida.
Respiro, la mia parola, il mio esistere.
© 2025 Mariafelicia Carraturo. Tutti i diritti riservati.
Abituata a pensare ai rapporti come a legami: qualcosa che unisce, che trattiene, che crea vincoli stabili tra due o più persone. E’ una visione diffusa, ma confonde spesso l’unione con la dipendenza, l’intimità con la costrizione: le affinità non sono nodi che stringono, ma scale che innalzano.
Uno sguardo dentro di me
“Genocidio” evoca immagini terribili: campi di concentramento, marce della morte, fosse comuni, bambini strappati alle madri, intere popolazioni cancellate perché ritenute "altre", "inferiori", "nemiche". È facile pensare che questi orrori appartengano a mostri, a esseri disumani, a persone così lontane da me da sembrare di un'altra specie. Questo pensiero rischia però di essere pericoloso: è un modo per tenere la violenza a distanza, per illudermi che io non c'entri nulla… Se ho il coraggio di guardare davvero dentro di me, scopro invece qualcosa di inquietante e profondamente liberatorio: il seme di quella violenza, si, l’ho piantato io...
Non è facile ammetterlo, eppure ci sono momenti, piccoli, apparentemente insignificanti, in cui giudico silenziosamente qualcuno, sento fastidio ed allontano ciò che mi mette a disagio. A volte è insofferenza e mi chiudo, mi proteggo, creo muri interiori. Tutto questo, se non ne divento consapevole, può crescere. E ciò che dentro di me è un semplice malessere, nel cuore di una società intera può trasformarsi in odio, esclusione, persecuzione. Genocidio.
Non nasce all’improvviso: è preceduto da una lenta e silenziosa costruzione di “noi” contro “loro”. Comincia da parole, da sguardi, da indifferenze. Nasce da una cultura che disumanizza l’altro, che lo riduce a categoria, a problema, a minaccia. E se questo processo prende piede, se nessuno lo vede o, peggio, se molti lo alimentano, allora la violenza diventa realtà.
La responsabilità comincia da me: non posso cambiare il mondo intero, ma posso osservare le mie emozioni, riconoscere quando mi irrigidisco, quando sentenzio, quando manipolo, quando manco di Amore. Quando sento il bisogno di difendermi o di respingere, posso scegliere di non alimentare quell’energia: ci resto assieme, la osservo e la lascio sciogliere. Scelgo di ascoltare, di comprendere e di aprire il cuore.
Non è facile, non è immediato e forse non è nemmeno "eroico" nel senso classico, ma è un atto rivoluzionario, perché ogni volta che adotto comprensione al posto di giudizio, ogni volta che incontro l’altro con rispetto, contribuisco a spezzare la catena della violenza. Ogni volta che riconosco il seme del genocidio dentro di me e decido di non nutrirlo, faccio spazio a un’umanità diversa.
La pace non è solo assenza di guerra: è presenza di coscienza. È una scelta quotidiana. È il coraggio di guardare dentro di sé, nei luoghi più scomodi, per non ripetere “fuori” la storia di ciò che è “dentro”
© 2025 Mariafelicia Carraturo. Tutti i diritti riservati.
Mariafelicia Carraturo nasce a Napoli il 15 ottobre 1970, in una famiglia di rinomati pasticceri. Fin da giovane, pratica il nuoto agonistico, incoraggiata dal padre, ex campione italiano di lotta libera e convocato alle Olimpiadi. Purtroppo, la perdita prematura del padre, quando Mariafelicia ha solo 13 anni, segna profondamente la sua vita, infrangendo molti dei suoi sogni.
Nonostante il dolore, Mariafelicia si laurea in Economia e Commercio con il massimo dei voti, diventando dottore commercialista. Tuttavia, fatica ad affermarsi nella professione. Nel luglio 1999 si sposa e, nel giro di 18 mesi, dà alla luce due figli: Guido e Davide. Per dedicarsi completamente alla loro crescita, decide di lasciare il lavoro.
Nel maggio 2010 si separa dal marito e, nell'agosto dello stesso anno, inizia ad allenarsi seriamente nell'apnea profonda. A settembre 2011 partecipa al suo primo mondiale in Grecia, stabilendo il record italiano in Free Immersion (FIM) con -61 metri. L'anno successivo, a Ischia, conquista il record italiano in Assetto Costante con -68 metri e, a novembre, durante il Vertical Blue alle Bahamas, migliora il proprio record portandolo a -79 metri. A 42 anni, viene convocata nella Nazionale Italiana di Apnea.
Negli anni successivi, Mariafelicia si dedica alle specialità più estreme dell'apnea. Nel luglio 2015 stabilisce il record italiano in No Limit, scendendo a -110 metri, superando un primato che durava da 26 anni. Ad agosto dello stesso anno, diventa primatista italiana in Assetto Variabile con -105 metri e, sempre ad agosto, migliora il proprio record in No Limit raggiungendo -120 metri, rendendo quella stagione indimenticabile.
Il 2016 rappresenta per lei un anno sabbatico: percorre il Cammino di Santiago e inizia a sognare un record mondiale. Il 25 agosto 2018, a quasi 48 anni, diventa campionessa del mondo in Assetto Variabile, scendendo a -115 metri in 3 minuti e 4 secondi.
Mariafelicia riceve numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui il Premio Padre Pio 2018. Nell'ottobre dello stesso anno, è protagonista di un talk al TEDx Napoli, riscuotendo enorme successo. Diventa un esempio di tenacia e forza, ispirando non solo le donne, ma anche bambini e adolescenti attraverso incontri scolastici organizzati da insegnanti lungimiranti.
Il 3 luglio 2019, apre la cerimonia di inaugurazione della XXX Universiade di Napoli, sfilando su un carro al centro dello Stadio San Paolo, impersonando la Sirena Partenope.
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